venerdì 1 maggio 2009

La sospettabile apparenza, Bradley Castellanos



Da quando la pittura è divenuta eminentemente fotografica, grazie soprattutto all’influenza di un genio come Gerard Richter, è andata acquisendo una apertura concettuale sempre più ampia sulle proprie digressioni culturali e mediali, e il rapporto con il mondo e l’ambiente, inteso anche come spazio, virtualità da esplorare e riempire di significati epocali, inquietudini, visionarietà, libertà di segni e attese, assume ogni volta una nuova connotazione antropologica profonda e insieme nuda nel varare lo spazio della superficie pittorica, in modo ecumenico, e di potente impatto. Dopo il duplice impulso simbiotico dell’astrazione e della figurazione come nel caso del maestro tedesco, è avvenuta una violazione, in senso positivo, di contaminazione totale interna alla stessa pratica del dipingere. Come se tutto il cinema, la performance, la video arte, l’installazione che negli anni novanta, sembravano dovere sostituire o sopprimere il mezzo, fossero invece entrati insieme nella tela, dando vita a una nuova superpittura, stratificata, in grado di rivoluzionare la rappresentazione del reale e di sfruttare nell’ambiente del quadro le linee strumentali e teoriche per esprimere con maggiore frontalità, ma allo stesso tempo con più ambiguità, e dubbio cartesiano, il valore esteso dell’immagine che comunica. Poiché la pittura dopo aver superato la sua crisi periodica, sta attraversando certi meccanismi di autoanalisi, di un’illusorietà che fa i conti con la natura profonda delle cose, con un certo tipo di ricomposizione del reale, che si contrappone ad una produzione industriale delle immagini, e quindi soprattutto si raffronta con quella naturalità in senso lato che era stata delegittimata dal rigetto per il romantico. Addirittura come per lo scozzese Peter Doig, una formulazione peculiare della figurazione paesaggistica e naturale dal tocco realistico, ha reintegrato un romanticismo in grado di convogliare l’energia polifonica dell’immagine, all’inusuale e al poetico. Si restituiscono una “religiosità” o una scientificità che passano per un confronto duro e serrato col reale/naturale, con lo spazio trasformato del mondo iper-tecnologico e iper-industriale, vagliandone fastidi e idiosincrasie epocali.
Per questo parlare dell’opera di Bradley Castellanos significa subire gli effetti di problematiche che indagano le strategie di un’iconicità naturale e alterata, di ciò che è superficiale e profondo; un’elaborazione mentale dell’ambiente, intesa nelle varianti della purezza onirica o in quella del degrado e della corruzione di ogni materia sottoposta ad un passaggio evolutivo, allo stesso modo in cui si incentra prepotentemente nella manualità pittorica una gestalt che idolatra il colore acceso, per declinare maggiormente verso la trasposizione di un mondo reale e visivo segnato da eccessi di ogni tipo. Qualcosa di tossico, inquietante aleggia nelle opere a tecnica mista di questo artista messicano, residente a New York, dove il colore caldo o resina viene steso sulle fotografie, in una eloquenza allucinata che si sposta continuamente dal fantastico, al sociale, con un grande rispetto della visione dell’opera e per la natura del messaggio, occultato e rivelato a seconda della sintassi che si vuole produrre. Infatti una parte delle opere di Castellanos si sofferma sul paesaggio, specialmente quello boschivo dove la dimensione dark delle atmosfere, e delle allegorie sospese ingaggia l’ancestrale, l’inconscio, come certe favole, che oggi si canalizzano nel malefico di un cinema o di una letteratura che potrebbero includere tanto Kubrick quanto Stephen King. L’altro aspetto dell’opera è invece quello che racconta e definisce nella straniante narrazione delle provocatorie zone “in disarmo”, i luoghi abbandonati e privi di presenza umana, come il porto con acque schiumose e il cielo chimico fluorescente di Fallen Belle, oppure le fabbriche fuori uso piene di detriti, materiali di scarto, pezzi di lamiera, che rimandano a tutto un mondo della ruggine, della corruzione materica, del consumo biologico e molecolare delle cose, immerse nella sfera vitale dell’uomo quanto le sue componenti interiori. C’è sempre un coincidere del biologico e l’incorporeo in questa pittura, fino a quando il panteismo oscuro che la anima finisce per incontrarsi con il detrito, con la deiezione del creato o del consorzio industriale moderno e post-moderno. L’idillio è stato rimosso anche nella chiave ironica, lasciando spazio solo alla cieca ottusità di un incubo reale. A differenza di Doig qui l’eden è assente o rovesciato in un carnevale minerale dove il divino convoglia nel metallico, lo spirituale coincide con un processo di sedimentazione e inacidimento di sostanze chimiche, che si addensano nei cromatismi, e debordano dove tutto ciò che è stato prodotto e consumato diviene rottame esistenziale in una cosmogonia del residuale.
Ma bisogna fare attenzione a focalizzare quello che è il vero intento di questa operazione metaforica e metamorfica, poiché se inizialmente l’approccio tradisce una semiotica lineare e dell’indignazione, l’impulso forte che spinge ad osservare è una conoscenza profonda della natura percettiva rispetto all’habitat e all’ansia politica e antropologica che risiede in esso come dramma sociale, storico, inscindibile dal suo terrore mediatico e irreale. I media sono caratterizzati secondo la posizione del dromologo Paul Virilio da una sovraesposizione di informazioni e di immagini che inducono lo spettatore a uno smarrimento e a un abbagliamento che appiattisce i sensi e la capacità di avvicinarsi al reale e comprenderlo. Tale “illuminismo” mediatico finisce poi per coinvolgere anche certa produzione artistica che frulla il reale in un senso di sterilità e di superficialità. Allora la pittura costituisce un cosmo di immagini che permangono nella percezione e resistono a qualunque oblio e indifferenza, analizzando diverse pratiche e dinamiche di velocità e di cambiamento. Castellanos rispetto all’illusorietà del televisivo contrappone un’illusorietà della pittura che va in profondo alla realtà contemporanea di cui è l’esasperazione profetica: sono immagini afferenti ad un inconscio collettivo queste, legate ad un'iconografia del "troppo noto", che svelano un sistema di paradossi in cui l’equilibrio è funambolico fra l’immagine liberata nella sua nudità che grida di senso e il suo eccesso di significante. Così le tonalità acide, artefatte si integrano al sensoriale e raggiungono una resa che va ben oltre il pop e si spinge fino alla grafica digitale, da videogioco. In maniera sostanzialmente inversa, alla bellezza sfavillante e caleidoscopica di un impianto commerciale, seducente quanto fatiscente, in cui la transitorietà del visivo, anestetizza la cognizione, qui la vitalità cromatica risveglia dal torpore, l’apparenza è sospetta per metterci in guardia e sollevare il problema della rappresentazione rispetto ad ogni esperienza visiva referenziale filtrata e fungendo da catalizzatore di energie stimolanti e invisibili, superando così le questioni sul retinico, ma anche sull’audiovisivo. La pittura di Castellanos parla con impeto, parodiando i media, e sovraesponendosi oltre per spingerci verso l’essenza, non per allontanarcene, infatti crea uno scenario filmico a tratti sospetto come un eccesso di quiete, talora acceso come un allarme, ma la cui visione scioccante legata direttamente all’oggetto, ci lascia qualcosa, una traccia, nella materia più profonda, per far riemergere e permanere in noi, paradossalmente, la verità sulla condizione di corruzione e mistero a cui siamo necessariamente connessi. Infatti l’artista ripropone scenari metropolitani e post-apocalittici della sua New York, vedi King’s garden, ma riadattati ad un rilievo onirico e surreale che nella deformazione li rende universali, affermando il carattere duro di una città che adesso è anche spazio ostile, tenebroso insediamento animale dell’uomo che non ha ancora raggiunto l’equilibrio fra primitivo, necessario, e il progresso. Come per ispirazione del De rerum natura di Lucrezio si indaga la costruzione anatomica della natura e della natura iconografica e si evidenziano gli aspetti evolutivi insieme alle violenze di una insaziabilità esponenziale del nostro tempo, mentre si ausculta il valore esponenziale della pittura che fornisce i codici di decrittazione. La fluidità del passaggio tra l’oggettivo e il plasmarsi invece di un cosmo mnemonico di silenzio e teatro, è pregna di morte, lo spazio non è locus amoenus, ma deserto caustico e raggelante. La guerra (dell’America condotta arbitrariamente contro una parte del mondo) è anche ciò che incenerisce la vegetazione, la materia materna del pianeta, il suolo da coltivare di popoli già verso il declino, e proprio per quel senso di apertura di cui parlavamo all’inizio la pittura introietta questo profondo deliquio e orrore in un prospetto della performatività del dipingere che contiene ciò che rivela, un che di sordido e terribile, ma non solo la paura borghese e medievale della natura, ma quella più virulenta e meno misteriosa dell’esplosivo, in cui il confine tra l’inverosimile e l’inverosimilmente vero è labile come in quell’11 settembre sotto gli occhi video-diretti del mondo. Per questo la pittura di Castellanos è occultamento rivelatore di ciò che è ancestrale e odierno, poiché ci mostra un’irrealtà amaramente credibile sul punto di crollare, è la trasposizione di una transitorietà sublimata dall’eternità dell’opera, quindi alla fine, annullando i filtri nella loro annichilente ripetizione, tranne quello della pensosità rutilante della sua pittura, sullo scenario post-apocalittico in cui si gioca la resistenza di immagini che sono in relazione a valori umani e artistici da praticare eroicamente.

Giuseppe Di Bella

Orme di luce, stratigrafie dell'anima.


Il lavoro di Milena Nicosia inizia negli anni novanta e si delinea subito nel segno di una sperimentazione pittorica indirizzata al ritaglio intimistico della evocazione e della precarietà individuale, attraverso la serie di opere dedicate alla lingerie e all’uso digitale della rappresentazione femminea. Ma subito da questo primo approccio generazionale, che pure si distacca da un certo formalismo tecnico per divenire ricerca della cosmologia personale, emerge l’intensità genetica dell’impronta pittorica ad alto tasso di condensazione analitica e fantastica. Il procedimento creativo infatti è attraverso, dentro, e il quadro diviene testo, partitura diagnostica di un percorso esistenziale che si universalizza e raccoglie la memoria umorale, chimica, organica nel tracciato radiografico della ricezione, che è oltre: indagine sonora, sui generis dell’introspezione. Oggi per Milena l’interesse di osservazione si estende a precipui referenti esistenziali che virano dall’intimo cristallizzando i correlativi oggettivi di ambizioni prettamente femminili e umane, elucubrando sulla gestione di un senso "romantico" comunicativo dell'invocazione. Le radiografie di Man Ray sono il riferimento compositivo a cui la giovane artista mira per captare le oscillazioni frequenziali dell’emotività: lastre in cui proustianamente il ricordo si acuisce e si definisce in orme di luce che hanno preminenza nell’atto espressivo.
Sono forme vincolanti della formulazione genetica dell’immagine, in potenza e poi nel deposito che plasma la configurazione anamnetica. L'artista sfrutta l'effetto di resa percettiva per la delineazione delle occasioni tralasciate, degli attimi turbati dell’infanzia o gli enigmi stigmatizzati del quotidiano che emergono come ectoplasmi luminescenti, nella fluidità del movimento dinamico, nella fissità fotografica e in negativo dell’ordito spaziale circoscritto. Ma probabilmente ciò che traspare è sempre sul confine fra processo selettivo del desiderio e accensione sulle derivazioni dell’ignoto.
L’abito a cui è rivolta l’attenzione anche nei suoi risvolti estetici e la cui essenza storica coincide con le coordinate della vita, è la cruda indicazione di un evento sia anche esso la sparizione e quindi la morte dell’individuo, tale da determinarne la presenza in quanto residuo, fossile, sindone, un tracciato di impulsi corporei e inquietanti trascritti come in un referto che diagnostichi la malattia e il dolore ma non solo per dissolverne con il superamento quel male, ma per accettare il valore di quella emozione che resta testimoniata nel nudo (perché privo del suo indossatore) vestito, vestigia nelle rarefazioni mentali; oppure la potenza di un futuro ipotizzabile, come quello esibito di un abito da sposa. La pura datità delle spoglie con cui Milena titola molte delle sue opere, è non solo l’indicazione svuotata dell’essere, ma anche la sua verifica identitaria, ciò che resta, ma non viene obliato od obliterato da un diktat consumistico del decorso: anzi è la custodia e la ricreazione di quel valore sensibile nel suo evidenziarsi iconico, ma fisico, evoluzionistico. Per esempio in Spoglie 23 il bianco cupo di un abito da festa è circonfuso dal rosso, dalla sabbia densa di un ovattamento emozionale, di un doloroso ricorso all'indietro in cui con eccellente mimesi le macchie, le imperfezioni pellicolari diafane, luminescenti generano i frastagli naturali, le ramificazioni, le efflorescenze di un lieve controcanto, una quinta infinitesimale.
Da un testo di prosa creativa che la stessa artista ha scritto come dichiarazione di poetica si traggono alcuni spunti interessanti nella visione duplice di una ebbrezza rifusa tra l’alto ambizioso di una ricerca filosofica, e il reliquiario personalissimo delle fissazioni:“sto analizzando pittoricaMente il ‘luogo’ inVisibile del corpo, “l’Anima”, non intesa in senso cattolico ma il cuore del cuore, la nostra intimità assoluta nell’unità che è il tutto, nel tempo infinito che è l’istante, nella parte inviolabile di noi, nell’alchimia che riconduce la cenere a umanità e l’umanità alla cenere. Paure e fobie contemporanee verso le malattie, i virus e le infezioni che inacidiscono il sangue.” In Sentitamente ringrazia, la configurazione di una bicicletta si unisce polimorficamente alla suola di una scarpa che traspare sfocata, buste da lettera, forse mai spedite, e alla stoffa leggera, setosa di un indumento fluttuante, che è fluttuazione della pittura come recto della permanenza per cui è evidente il risultato di rappresentazione che contiene lo spirito di quegli enti non come avverrebbe in ambito religioso, piuttosto come la impressione fotografica di un'energia misteriosa destinata all'archivio di qualche indagatore dell'occulto, una registrazione sismica dell'anima. Le vesti sono l'emanazione, quasi l'incavo, il contenitore che accoglie le possibilità inesplose, una potenza femminile dell'arte di soffermarsi sul dettaglio imprescindibile, ma soprattutto la capacità di essere ventre, liberazione verso l'essenza e la trasparenza, come il rovescio dell'arte maschile, petrolifera, sulfurea delle "fotoradiografie" di Giovanni Manfredini.

L’opera è la prefigurativa narrazione epica di una trasformazione umana espletata dalla incertezza non solo dell’antico dubbio sul valore dell’esistenza e della condizione di precarietà generale, ma di una precarietà intrisa di paura nell’attimo, di una dimensione tecnologica, medica e biologica concentrata nello spasmo quotidiano di cui rimane la cenere gravitazionale, la diapositiva filtrante. Ceneri è infatti l’altro tema antropologico che nomina le lastre apodittiche fantasmatiche, vettore di un’inquietudine che si fonda sul senso tragico contemporaneo -che “niccianamente” è ordine e caos- di eventi come Ground Zero (la polvere che si alza dopo il crollo e genera a sua volta una struttura metamorfica) o le guerre del petrolio o anche in base a teorie fisiche contemporanee che rivelano l’oscurità della materia conoscibile e dalla cui combustione si esalano le polveri mefitiche che siano cemento, metallo, carne, lì dove si incontrano con le polveri del privato, quali cipria, creme snellenti, borotalco, nell’alchemico ossimoro pulviscolare che si deposita, si aggruma e si solidifica, trema e si crepa concrescitivo dell’unicum di immagini stratigrafiche e archeologiche dell’esistenza, a formare un cosmo dell’oltranza, o del rituale. Le opere monocrome sottendono alla ritualità della creazione in un approccio tribale durante il quale l’artista sul supporto posto orizzontalmente in terra lascia cadere tracce di pigmenti puri derivati dalla cenere di vite, di amianto, polvere di cacao e mescolati ad una colla acrilica che mantiene la superficie in uno stato di umidità, (una tecnica quasi “a fresco”). Si avverte fortemente l'amore per la pittura del trecento italiano, ma anche per quella cinquecentesca in cui la preparazione minerale, magica del colore, anche in Leonardo, è parte creativa in sé e non solo sapienza artigianale, piuttosto sacralità che permane. Il colore è un meccanismo semantico che esprime in sé una forza descrittiva, analitica. Senza tornare ai multiforms di Rhotko tuttavia la differenziazione cromatica per la Nicosia ha un destino funzionale:" I colori vanno dalle varianti di grigio, più o meno rosato o azzurrato o ambrato oppure vi è la sintesi rigorosa e metafisica del bianco e nero. Il bianco è la luce assoluta quale assenza di colore, simbolo dello sgomento che è la radice del mondo, la morte severa, secca, fredda, caustica, bruciante come il gelo. All’opposto il nero è la tenebra e la tendenza al non essere, fornito da ciò che il fuoco ha usato e abbandonato,(la fuliggine e il carbone)." Qui talora si gioca con la doppia possibilità del controllo e di una casualità però sempre accuratamente vagliata: eco dell’action painting e della danza di Pollock attorno all’opera che viene rimodulata sotto il segno di un delicato esercizio di salvazione tenace dell’interiore formale, connotato. Su un particolare, sulla liquidità degli elementi che smottano, scivolano, il soffio aereo dalle labbra di Milena interviene per equilibrare la gestazione, per autenticarne l’armonia. La pratica manuale si smaterializza nell’emanazione vitale e polverizzata di una pratica coitale. La pittura si fa evanescenza, forma fluida e volatile che aleggia oltre la sua misura e tenta di afferrare nei patterns la catalogazione dell'assenza, su cui cade, secondo i versi di Andrea Temporelli, "il cenere muto della storia." Ma la registrazione o la rivelazione non seguono una scansione regolamentata del passaggio, ogni dimensione temporale è annullata, perché nel tempo del sogno, della rammemorazione o del congelamento istantaneo può trionfare solo il senso di contemplazione e di sospensione che rimanda al tempo fermo dell'arte che è il contrario di quello corrosivo della morte e della clessidra vitale. L'impossibilità della morte per l'arte qui è minimizzazione di ciò che per esempio vale la conservazione in formaldeide dei corpi sezionati di Damien Hirst, il rifiuto di quella morte avviene per (provocatorio) il sezionamento che agli spettatori fissi sullo stato di conservazione biologico li porta a convenire su un senso beffardo di immortalità. La conservazione gelosa a cui si ispira Milena è piuttosto quella delle scatole, di una cosmogonia dell’interiore, tramite chiusure disvelate, nude abitazioni del senso umano, privato, minimale, prezioso. Nell'opera Scatola 24 una farfalla ricamata e i petali di una rosa, unici elementi colorati nel monocromo immaginario afferente a una semiotica femminile, nel suo rivelarsi compito, essenziale. Dalle figurazioni trasparenti, seduttive del primo periodo dove i perizoma, i reggiseno erano iridati da colori caldi, avvolgenti seguivano le tensioni biografiche dell'artista, ora si stemperano in freddi, algidi bianco e nero, i colori assoluti, all'interno dei quali tutta la gamma di percezioni consta, che non sono l'abbandono del sentimento che li ha originati, quanto un allontanamento delle passioni inteso come in Seneca, considerando la maturità e la evasione leggera, senza dimenticare il peso delle storie a cui la pittura dona una fenomenologia. Giochiamo! 2, è l'opera che più denota questa funambolica danza tra le inquietudini e gli orrori del tempo presente, la sega, in negativo in basso si raffronta al galleggiamento che rallenta la giravolta dell'abito, poiché il gioco è sapersi ricordare del nemico, o delle ombre al neon, forse feti, ecografie di una impossibile gravidanza a cui rimangono saldati nella volontà di attuazione. Quasi un chiamarli all'atto in senso heideggeriano, per far rivivere, salvare o ricreare la realtà a cui mai l'istinto artistico soggiace.

Di Bella Giuseppe

Tra patinatura e disfacimento della carne.


Su coordinate estetiche sempre più divergenti ed inclusive rispetto all’intricato svolgersi dell’espressione artistica contemporanea, la sola imperfezione programmatica che offra un corto circuito comunicativo vero, sembra condensarsi tutto nel fiorire di una difforme concezione dello sguardo soggettivo che si cala in un oggettività, ormai non più neanche tanto clandestina né estranea, dal percorso tempisticamente incorruttibile dell’occidente. Di certo in Oriente, fra i fortissimi rossori fuxia delle donnine di Feng Zhengjie e i corpi teatralmente denudati di Xu Wentao, in linea con tutta quella scuola riconosciuta dal 2003 come Pittura fotografica cinese, la dimensione corporale e corporea del neo-figurativo viene compressa in una dialettica che se da una parte denuncia in maniera solo speculare e reiterante superficialità e turgore patinato, costituisce di certo una possibilità semiotica sfruttata al pieno delle sue risorse storico-artistiche peculiari.

L’omologazione del linguaggio dell’arte nella sintesi multimediale sembrerebbe riprodurre analogicamente quello della globalizzazione nei confronti dei patrimoni culturali, in quanto fusione mirante alla spettacolarizzazione ad ogni costo, di ogni elemento seduttore, anche e soprattutto il corpo nudo, emblema della espressione classica dell’arte. Ed anche in occidente il canone del nudo figurale sembrava riacquistare un primato con un’alta qualità di lignaggio solo in maniera proporzionalmente inversa alla produzione in tal senso praticata. Lucian Freud ed i suoi corpi disfatti, realisticamente sfigurati sui letti, in pose che risarciscono dell’armonia greca nei suoi tendaggi e che la superano nella capacità di non sentire più il bisogno di un’espiazione, ma ricomponendone geometrie e attuandone valori di bellezza straordinariamente lirici e capovolti. Allora il senso è sempre quello primigenio della lingua, di un linguaggio da restaurare in virtù di un rinnovato contenuto estetico, nella sempre feconda dicotomia fra Est e Ovest della creazione, in continua contaminazione e negazione delle rispettive formule. È possibile per esempio riscontrare singolari somiglianze tra le pose e le movenze di Xu Wentao e l’iperrealismo domestico di Giovanni Iudice. Donne, veneri moderne coi piercing, i bracciali alle caviglie, statue, silhouette, perse e adombrate nell’alienazione del loro desiderio, in un caso, e della loro noia quotidiana nell’altro: figure di cera adagiate contro termosifoni o abbandonate in fredde vasche d’acqua osservate dall’alto come a confermarne il residuo cinematografico o l’onnipotenza divina sempre sfiorata dall’ego artistico. Una superficiale divergenza dunque tra l’oriente sempre ammantato nel mistero di un suo cantore teso all’icastica irriverenza e un occidente incarnato dal desiderio effimero dell’immortalità, di un hic et nunc sempre più logoro e ingannevole.

E sono pittori lontani per estrazione eppure accomunati da una stessa percezione voluttuosa, edonistica, dionisiaca della figura umana. Parliamo di Marco Grassi, Elisa Rossi, parliamo di Costantini e di molti altri ancora, quasi correlativi continuatori insieme ai più celebri colleghi americani di quella linea di erotismo raffinato riposto in Renoir, Monet, Klimt. Sembrerebbe il segnale di una scossa strutturale estesa che potrebbe comportare la fusione davvero globale nel nome di un modello in cui convivono le differenze e vengono esaltate le somiglianze, utilizzando la figura e il nudo non più come soggetto dell’arte, ma come luogo del classico perduto nella tensione fra filologia e negazione. Tuttavia è sulle somiglianze che bisogna basare questa ricerca, constatando quanto ancora una volta nella vertiginosa epoca del virtuale, l’Icona coincida sempre di più con l’essere, e come la carne subendo un fenomeno di plastificazione visiva, materica, semantica confonda il confine tra realtà e finzione dove è la prima che imita la seconda come rilevato in un libro estremamente acuto che è L’età della finzione. Arte e società tra realtà ed estasi di Massimo Melotti pubblicato per Sossella Editore nel 2006.
È interessante scorgere come tutti questi artisti particolarmente attenti alla figura umana adottino la tecnica per confondere, anziché per concretare lo scarto fra grana mediatica e sintesi materiale fatta di umori, sangue, peli impercettibili, pori, vene appena azzurrate sotto la cute, nell’acme erotico e non più sublimato dalla lente del racconto, sfruttando la caduta del pudore pagana nel ri-confezionamento industriale e seriale che elide ogni passione e contatto.

Allora è forse questa la chiave di lettura, siamo di fronte alla ricomposizione formale della perfezione classica nell’estasi sensoriale dove la carne è, nel suo rosario sgranato di icone labirintiche da Internet e televisione, al tempo stesso la rassicurante bellezza senza rughe e l’orrore di un corpo in disfacimento, riflesso esistenziale privato di ogni rapporto col metafisico e col suo alterego naturale, il sogno. Forse corpi senza anima, se proiettati sul fondo dello schermo dove tutto esiste perché è visuale. Di certo non siamo più di fronte alla terribile e magnifica deformità straziata di Francis Bacon, dove la deformità è ancora psichica prima di ogni altra cosa. Ma proprio a partire dalle affinità con uno come Bacon si potrebbe ritrovare la scossa necessaria ad una rivalsa differenziale che oltre alle consuete sovrimpressioni sul classico che deturpano o perfezionano inchinandosi al minimalismo, verta ad un’indagine conoscitiva che espressionisticamente ci riporti al mito della bellezza o del suo contrario ad un livello veramente sovrumano e quindi sovrastrutturale, come nella pittura straordinariamente aperta e corrotta, dura di Marlene Dumas. Nell’arte classica il nudo è strumento estetico che, “castrato” della sua fisicità, esprime il mito del corpo, proteggendo il mistero della bellezza (..) nell’Ottocento, Ingres immortala odalische, dedite ai piaceri del bagno turco, modellandole sull’esempio dei nudi classici. Così ricorda in un suo saggio Jaqueline Ceresoli e ritroviamo le cause di una frattura tra il nudo nell’arte come realismo naturalistico o come, invece, realismo voyeuristico. Oggi i nudi sono indici, oltre che della sessualità, dell’integrazione tra uomo e macchina. Il corpo si è trasformato da referente estetico, a icona carnale del piacevole dolore di vivere nella cultura contemporanea. Se l’Olimpia di Monet è il primo nudo moderno dove già il perbenismo borghese del 1863 creava una alchimia dello scandalo col piacere scaturito da quello scandalo, noi siamo al punto in cui il piacere nasce dalla sovrabbondanza visiva priva di pudore che infiamma i sensi fino a far scomparire la stessa immagine del nudo nella sua cieca rifusione lasciando un buco nero sullo schermo della nostra indifferenza abituata. Allora è giusto riproporre una semantica erotica che riconduca il nudo alla sua propria dimensione pittorica, con quelle sfumature di contenuto capaci di dialogare ancora ad un livello alto con il nostro vero sentire.

Tuttavia c’è sempre nel corso della storia chi come Gaugain costituisce già in sé una eccezione capace di sostenere qualsiasi contraddizione e di coniugare insieme substrato emotivo, contenuto e unicum fra occidente e oriente, missandoli nella rifuggente nudità priva di pudore, perché al di sopra di qualsiasi perversione o moralismo. Così, forse si chiude il cerchio e tutto ritorna all’esemplarità dell’atto creativo dove la bellezza riconquista un suo potere curativo e rilassante senza più le maschere né della classicità né del modernismo infausto. Così giustifichiamo nelle pagine a fianco la presenza di un artista polacco, operante fra Parigi e New York, un artista che nella pura declinazione della bellezza femminile riscopre la dimensione del sogno e di un nudo reale, ma evanescente, sensuale, non seduttore, capace di affabulare trascinandosi dietro il mondo, ma non le sue convenzioni.
È Yarek Godfrey, doratore di sembianze strappate alla riconoscibilità del video e riportate alla pittura calda, radiosa e monocromatica della visione. Non siamo tuttavia di fronte alla vacuità della visionary art, ma ad un pittore più concreto che mai, dalla tecnica perfetta, impeccabile, come di norma per ogni naturalista. Yarek congiunge brani floreali, evanescenti alla figura umana, senza la ritrosia dell’ovvio, ed è capace di coniugare con velature e dissolvenze, sinuosità di tigre e armonia, sesso femminile e acqua simbolo di fecondità ancestrale, fino a farci partecipi in uno del fuoco e del legno. I suoi scorci sono collage senza margine, di brandelli di tempo e di ricordo illuminati dal calore dell’esistenza e semplificati pure nella loro complessità mnemonica: piani diversi sotto lo stesso sfondo ocra, nella vanità compiaciuta che non dileggia se tenta di evocare ingenuamente nei glutei, come nella volta di quel cerchio dimensionale, la possibilità almeno nell’arte di Un mondo perfetto, dove anche il Santuario contiene la forma più provocante della femminilità e ci crea forse un po’ di disagio, finalmente, perché totalmente straniante rispetto alla dolcezza con cui adagia i suoi corpi, semplicemente belli, desiderabili, forse irresistibili, ma senza polemica, senza specularità gridata. I suoi dipinti sono graffiati solo dallo scorrere del tempo, dalla ineluttabilità del corso vitale che di certo sfiorirà quei corpi, avvizzirà quei seni, ma senza rimpianto se avremo colto il dono, ancora quell’invito al Carpe Diem, qui più accorato e più sentito che mai.
Scorrono negli occhi le molteplici figure di Venere, di Maya, di Olimpia, con quel trionfo della nudità che è il modo più diretto per ritrovare un legame con la nostra identità: che il nudo sia ancora il disvelamento estatico del nostro essere nel mondo e concludendo con le acute parole di Jaqueline Ceresoli, “un auspicio per allontanare il rischio di smaterializzarci nell'etere, di essere robotizzati o inghiottiti dallo spazio virtuale, dove la carne è un simulacro”.

Giuseppe Di Bella










Bibliografia: L’età della finzione. Arte e società tra realtà ed estasi, Massimo Melotti - Sossella Editore 2006.

La nuova scena urbana. Cittàstrattismo e urban¬art, Jaqueline Ceresoli- Franco Angeli editore 2005

Cina Pittura Contemporanea, Lorenzo Sassoli de Bianchi- Damiani editore

Mauro Di Silvestre Le tracce eteree del passaggio.


La pittura di Mauro Di Silvestre assume l'iconografia del miraggio. Un miraggio che ha la doppia funzione cerimoniale, di ripercorrere e di espiare la proprie tracce esistenziali. Le tracce che Mauro Di Silvestre fa trasparire attraverso raffinate velature sul tessuto dell'opera, rappresentano infatti una catarsi personale, che come rileva Achille Bonito Oliva hanno la cadenza proustiana del ricordo e scontano la loro marmorea precarietà fino a esaudire un desiderio di fabulazione e di distanza. C'è di fondo una tensione conoscitiva in questa trasposizione degli stralci fotografici dell'infanzia volta ad affermare con pudore o ansia il sostrato psicologico volontario, in modo da definire la reminiscenza di quel lì e allora come pratica mnemonica che tradisce evanescenza in contrapposizione all'immanenza dei mobili, delle auto, dei palazzi, delle tappezzerie, degli alimenti, degli accessori quotidiani investiti dall'incorruttibilità che conferisce loro la potenza cromatica e realistica sul confine tra figurazione e deformazione. C'è una influenza quasi spirituale nella ritrattistica dell'artista, atta a spogliare il puro dato figurativo e a rimarcarlo su una più intensa sonorità esistenziale, come una ricerca poetica pencolante fra l'esigenza gnoseologica dell'individuo e un'astrazione salvifica rispetto ad un quotidiano che assume l'iridescenza emotiva delle forme, nel ri-velare, nel ri-portare alla luce della maturità riflessiva i capitoli di una vicenda in cui si insabbiano le tracce che egli segue fino alla radice del proprio esserci umano, fino all'essenza dell'artificio primigenio.Una vitalità pantagruelica incarna i colori dei suoi dettagli infinitesimali, delle masse monocrome immerse in uno scenario dualistico fra soggetto e oggetto. I piani diversi, quello mnemonico e quello esplorato della contingenza si contendono l'attenzione dello spettatore lasciandolo ebbro sulla soglia della percezione logica, elusa nell'intreccio di parti che assumono valenze difformi sulla mappa sensoriale dell'opera. L'immagine è di fatto l'incarnazione dell'assenza, l'altra parola che Di Silvestre indaga e che fa rimare all'unisono con essenza, riducendola in filigrana impalpabile, dissolvendola in endoscopia indecifrabile del caso. E volutamente si tende a volgere soltanto in positivo le sfumature creative o ricreative del miraggio, dato che rasenta oppostamente al suo dettato, l'hic et nunc terribile della scomparsa imminente o la concretizzazione quasi cartacea del fantasma che cela sui passi della trama collettiva o individualistica: poco importa.

Di Silvestre cammina ad occhi chiusi verso la propria casa natale, ad occhi chiusi seguendo le tracce olfattive che lo riportano all'essenza della sua anima. E vi trova tutti gli oggetti lasciati, una giornata al mare, gli angoli della propria contemplazione estatica e ludica. Tutte le cose sono simboli su cui proietta una brama di possesso sibaritica, un'energia polimorfica pronta a esplodere sulla parete di un appartamento icastico, o su un cortile condominiale e pronta a prendere la forma di un magnifico arazzo o damasco, che la mente percepisce tale, ma che in realtà è solo la sovrapposizione della sontuosa stoffa di una poltrona, in Lontano da casa o come ne Il signore della domenica (2006) dove la fragilità della silhouette infantile sosta al centro di adulte traiettorie indifferenti e frenetiche. L'iconografia di Di Silvestre coglie il colpo d'occhio, il riflesso impigliato alla retina, refuso visivo che induce alla riflessività se instilla una dinamica rapsodica nel riconfigurare le pause, i deragliamenti sensibili, la riedizione di frangenti che sembravano perduti per sempre. Sulla superficie fotografica della memoria visiva imprime simultaneamente brandelli di passato e presente, impressiona su uno stesso fotogramma l'alone residuo che cattura le istanze empatiche dell'individuo, liberandolo verso un tempo posteriore dello scenario sincronico. Profezia di un'arte che si denota eccentrica. L'arte è compendio di visioni umbratili, ma riacquista una dedizione rappresentativa grazie alla manualità onnivora dell'artista che oppone il denso vitalismo delle sue opere ad una attuale sempre più anoressica estetica compositiva. Il gesto di Di Silvestre è ricercato, morbido, controllato, si adagia su un ricamo gotico delle forme e dei cromatismi, separa la soglia concettuale da un senso rutilante, bucolico della pittura multidimensionale.

L'iconografia del miraggio nel labile sagrato pittorico, mira ad una tensione volutamente indefinita di realtà che rimanda a Kierkegaard, asserendo tacitamente che l'occasione, il miracolo, può fiorire dalla banalità o che talvolta è la banalità a contenere in sè il miracolo. Le opere dell'artista vietnamita Din Q. Le, hanno con queste, solo un'affinità linguistica: ricamano insieme in un percorso virtuale di indagine, la quotidianità dell'odierno Vietnam e l'epopea drammatica della guerra. Ma mentre i fantasmi dell'artista orientale sono volti al canto di un mondo universale, ammantati di mistero ieratico, le ombre fugaci di Di Silvestre mirano alla reiterazione del desiderabile, alla catalogazione privata di un universo goliardico e carnevalesco da tutelare. È una riduzione iconica del dramma esistenziale dell'umanità in tracciato aeriforme del vissuto personale. Le icone eteree hanno la leggerezza specifica di un veloce passaggio alla cultura pop e ritorno. La trasposizione delle pigmentazioni soggettistiche, materiali o umane, si dirama come un collage o un patchwork che descrive le infinite possibilità del linguaggio svincolato da epistemi meramente descrittivi, virando ad uno stile contaminato, non più rispondente a un solo equilibrio d'immagine, ma scomponendo l'immagine in astratto, enumerando i miraggi autoindotti nel deserto habitat del giorno. Di Silvestre auspica un ascolto lirico, semmai, proteso alla lentezza del decorso esistenziale dove ad ogni passo ci si volta per apprezzare il lascito che ci trascina verso un futuro recente, dimidiato.

Secondo i dettami platonici l'arte è ricerca del piacere, secondo Aristotele essa è invece fenomeno di conoscenza, e attuando una sintesi narrativa repentina di queste tesi il pittore elabora un cosmo pittorico di fenomeni elementari, dove la statica congruità del contesto è mossa dal surplus dell'apparizione. Ma celebrando le immagini Di Silvestre se ne congeda per consegnarle a un pubblico sguardo. E il suo sguardo si trattiene dall'interno dell'opera per interrogarci sul responso non univoco che suscita. Come un messaggio spirituale che celebra l'icona di per sé esistente, l'uomo celebrato nelle sue espressioni anche triviali, attraverso una glissante proiezione olografica. L'apparizione è mimetica e in parte sottende allo scopo tecnico della realizzazione, dato che le opere hanno meticolosità quasi cinquecentesca. Ma infine la figura privata di corporeità, o dotata di un corpo inconsistente viene messa a nudo e salvata solo in quanto puro distillato di psiche ed Essere. Viene rimossa la carne, la zavorra per rappresentare intatto il significato, l'essenza, il puro distillato della pittura contemporanea.
Così nel suo frequenzimetro accurato, Di Silvestre trascrive tutti i sussulti, gli sbalzi, le pulsioni, i battiti, le tracce di quel vissuto da cui si congeda mentre lo dimentica in eterno, frutto di una memoria che non è più solo disegno, miraggio, rifrazione iconografica, ma emozione vitale scaturita di getto, rivisitando il silenzio, la noia, camminando nelle nostre dimore, quando al contatto della mano sfiorando il nostro alter ego, cediamo memori ed immemori, al flusso eteroclito dell'arte con le sue illazioni.

Giuseppe Di Bella

Tommaso Ottieri racconta la sua pittura


Pubblichiamo oggi una presentazione preliminare, che poi è un botta e risposta via e-mail con l'artista stesso, dell'opera di Tommaso Ottieri, a cui dedicheremo un ampio spazio sulla nostra rubrica "Passeur" sul numero di Giugno del nostro Trimestrale. Giuseppe di Bella ha posto alcune domande al pittore napoletano per tracciare meglio i contorni critici e gli spunti creativi della sua opera:
Giuseppe di Bella - In che modo si pone il suo approccio al medium pittura rispetto alla complessità dello spazio trasformato dell'era del tecnologico?
Tommaso Ottieri - I miei lavori nascono da sopralluoghi sui posti che intendo ritrarre, dove faccio rapidissimi schizzi, appunto note sui colori e soprattutto faccio un centinaio di fotografie alla scena intera ed ai singoli particolari. Poi, in studio elaboro al computer le immagini, spesso ibridando scene diverse tra di loro. Mescolo pezzi diversi, a volte anche di città diverse: quello che mi interessa è il risultato finale, che quasi sempre è preciso sin dall'inizio. Quando, alla fine comincio a dipingere il tutto, lo faccio con una tecnica tradizionale, di pittura ad olio o ad encausto.
In questo modo mi pare di utilizzare diverse tecniche, alcune modernissime come la computer grafica, altre molto antiche come l'utilizzo di olii e pigmenti per lo stesso unico fine: comunicare l'idea della grandezza dell'uomo.
GdB - L'importanza del segno, del "graffio" che sfoca ed esalta le sue rappresentazioni ha una funzione meramente estetica o un significato propriamente di valore, cioè anche semantico e di concetto?
TO - Alla fine della sessione di lavoro in studio ho davanti una scena dipinta in modo molto realistico. A quel punto cancello il più possibile, mescolo il colore con spugne, pennelli o anche con le mani. Mi impossesso del colore dimenticando l'immagine: in questo modo libero la materia pittorica quanto più posso dalla "schiavitù" dell'immagine reale, ed ottengo un impasto che sta a metà strada tra un lavoro di vedutismo, ed uno di segno materico astratto. Ogni cosa, la metto al servizio della sensazione che mi piacerebbe mettere davanti a chi guarderà il lavoro finito.
GdB - Cosa vuol dire per lei lo spazio urbano in termini di nuovo, come nuova possibilità di scoperta e cambiamento delle prospettive consolidate?
TO - Gli spazi dipinti nelle mie scene non sono mai veramente conformi alla realtà: le stesse prospettive sono somme di prospettive diverse. Uso parti di edifici per ottenere edifici nuovi, ed intere parti di città per ottenere una scena originale. Spesso, per esempio, i cieli che dipingo sono ammassi cumuliformi che ritraggo da esplosioni, o eruzioni vulcaniche, le acque sono studi sul vapore o sulle schiume, e gli stessi edifici sono ammassi eterogenei di pezzi sparsi. E' questo il motivo per cui sovente cucio insieme molti lembi di tela, per ottenere la superficie da dipingere. Alla fine, ricorderà una specie di Frankenstein spettacolare, e sarà memoria del procedimento costruttivo dell'immagine.
GdB - In che modo la progettualità dell'architetto entra all'interno della pittura anche per quanto concerne parametri scientifici, oggettivi?
TO - Ho cominciato anni fa a dipingere gli edifici che restauravo come architetto. Mi sembrava un corto circuito perfetto: la città si costruiva davanti a me, ne vedevo la fatica di migliaia di uomini in migliaia di anni, e ci mettevo le mani da architetto e da appassionato. Poi, la recuperavo sulla tela e la riprogettavo da capo. Qualche volta i miei lavori sono stati collocati proprio all'interno degli edifici che avevo ristrutturato. Quello mi sembrava un cerchio perfetto.
GdB - Che significa per lei la relazione fra naturale e umano, l'equilibrio precario ma prezioso che un luogo come Venezia rappresenta?
TO - La città è un atto violento e creativo dell'uomo nei confronti della natura:ha da sempre protetto, custodito e amplificato le aspirazioni migliori degli uomini. L'equilibrio non è quasi mai stato un obiettivo chiaro per quelli che l'hanno edificata, eppure, nel tempo, e nei casi migliori, come quello di Venezia, esso è stato raggiunto, perché quando la creazione dell'uomo è ben fatta, ed i suoi talenti sono spesi senza paura di fatica e sacrifico, si ottiene esattamente quello che ottiene la natura: armonia di ogni parte con ogni parte.
GdB - Le tracce storiche che influenzano il suo percorso sono pittoriche ma provengono anche da altre influenze: cioè a parte il vedutismo, a parte il paesaggio, quale arte è entrata nella sua arte?
TO - Io conosco come si costruisce la città: so che dentro le mura ci sono gli avanzi dei pasti dei muratori, che dentro la calce ci finisce ogni genere di umore umano ed animale, e comprendo quanto involontariamente uomini umili, grandi pensatori, incantevoli musicisti collaborino per lasciare una traccia comune. Penso sempre che non si potrà, tra un po' di anni, vedere le mie opere senza pensare anche ai film che sto vedendo, alle musiche che sto ascoltando, ai combattimenti ai quali sto prendendo parte.
GdB - Che relazione fra pittura e piacere?
TO - Ho sempre dipinto... intendo, lo faccio da sempre. Per vivere ho fatto lavori diversi, molti belli, qualcuno un po' meno, ma nel medesimo tempo dipingevo senza sosta. Sono fortunato, adesso a poterlo fare quasi esclusivamente: lo ritengo una cosa normale, come mangiare, camminare, parlare. Non saprei dire se c'è piacere, semplicemente lo faccio, come una cosa che appartiene alla mia stessa natura.
GdB - Che relazione fra pittura e funzionalità?
TO - L'intenzione di quello che faccio è la cosa alla quale sono stato interessato più di altro, da sempre, sin da piccolo. Pregavo i maestri, dai quali mi recavo a bottega, prima ancora di darmi le tecniche di chiarirmi un obiettivo, di aiutarmi a trovare qualcosa da dire. Uno non vuole convincere gli altri di quanto sia vero quello che ha pensato, ma vuole dare strumenti per poter provare cose che non si credeva di poter provare, per poter credere di poter fare cose impossibili. Come costruire cattedrali gigantesche, città ciclopiche, torri altissime, con mani lunghe poco più di venti centimetri.
GdB - Come intende il dialogo con la tradizione? (Poichè è evidente che c'è n'è uno.)
TO - Mio nonno preparava fuochi d'artificio per le feste religiose. Ricopriva campanili e facciate di chiese di polveri colorate e polvere da sparo, per incendiarli nelle feste popolari e far vedere alle persone , quanto diverso il loro mondo potesse diventare, quanto più potente, se qualcuno avesse messo mano ad esso, per creare l'artificio che spalanca le bocche, e rincuora il coraggio della gente. Credo di star provando a fare la medesima cosa.
GdB - Il suo sguardo è profondamente umano, molti pittori oggi intendono l'immagine come possibilità di ambiguità, di illusorietà, per lei vale questo assunto o tende piuttosto a una nudità?
TO - Nella mia città, Napoli, occorre tenere la guardia alta: mi piacerebbe ragionare sulle illusioni, sulla magia e sulle ambiguità che l'arte può e deve dare: mi piacerebbe parlare dell'intimità, della sessualità, dissacrare, diffamare, persuadere e dissuadere. Ma qui, in questa guerra, abbiamo altre urgenze. Costruiamo quello che possiamo per tenerci la speranza, e se alla fine, qualche quadro in più può migliorare lo spazio dell'uomo, di questi uomini, è già tanto. Magari un giorno, più tranquilli, penseremo anche noi a quelle altre faccende.
GdB - Nel ciclo Sirene L'idea di ambiguo, di destabilizzante, di fecondamente ingannevole, ma profondo, sembrava avere la meglio, forse adesso lo sguardo tende ad essere più propriamente poetico, essenziale?
TO - Sirene è stato un ciclo di lavori sulla forza di volontà degli uomini che resistono, in periodi di crisi, di guerra, di difficoltà, ad ogni genere di sacrifico e di privazioni: enormi macchine da guerra sovrastavano i pezzi delle città storiche, dipinte come sono ai giorni nostri.
Volevo solo scrivere l'enorme forza, la caparbia volontà di sopravvivere che avevamo avuto appena due, tre generazioni fa.
Ricordare di quando morivamo e ci sentivamo forti per quelli che riuscivano a rimanere. Adesso, credo di star dipingendo quello che siamo oggi, e come vorremmo diventare , al più presto possibile.Queste domande sono molto belle, e 11 è il mio numero preferito.