venerdì 1 maggio 2009

Orme di luce, stratigrafie dell'anima.


Il lavoro di Milena Nicosia inizia negli anni novanta e si delinea subito nel segno di una sperimentazione pittorica indirizzata al ritaglio intimistico della evocazione e della precarietà individuale, attraverso la serie di opere dedicate alla lingerie e all’uso digitale della rappresentazione femminea. Ma subito da questo primo approccio generazionale, che pure si distacca da un certo formalismo tecnico per divenire ricerca della cosmologia personale, emerge l’intensità genetica dell’impronta pittorica ad alto tasso di condensazione analitica e fantastica. Il procedimento creativo infatti è attraverso, dentro, e il quadro diviene testo, partitura diagnostica di un percorso esistenziale che si universalizza e raccoglie la memoria umorale, chimica, organica nel tracciato radiografico della ricezione, che è oltre: indagine sonora, sui generis dell’introspezione. Oggi per Milena l’interesse di osservazione si estende a precipui referenti esistenziali che virano dall’intimo cristallizzando i correlativi oggettivi di ambizioni prettamente femminili e umane, elucubrando sulla gestione di un senso "romantico" comunicativo dell'invocazione. Le radiografie di Man Ray sono il riferimento compositivo a cui la giovane artista mira per captare le oscillazioni frequenziali dell’emotività: lastre in cui proustianamente il ricordo si acuisce e si definisce in orme di luce che hanno preminenza nell’atto espressivo.
Sono forme vincolanti della formulazione genetica dell’immagine, in potenza e poi nel deposito che plasma la configurazione anamnetica. L'artista sfrutta l'effetto di resa percettiva per la delineazione delle occasioni tralasciate, degli attimi turbati dell’infanzia o gli enigmi stigmatizzati del quotidiano che emergono come ectoplasmi luminescenti, nella fluidità del movimento dinamico, nella fissità fotografica e in negativo dell’ordito spaziale circoscritto. Ma probabilmente ciò che traspare è sempre sul confine fra processo selettivo del desiderio e accensione sulle derivazioni dell’ignoto.
L’abito a cui è rivolta l’attenzione anche nei suoi risvolti estetici e la cui essenza storica coincide con le coordinate della vita, è la cruda indicazione di un evento sia anche esso la sparizione e quindi la morte dell’individuo, tale da determinarne la presenza in quanto residuo, fossile, sindone, un tracciato di impulsi corporei e inquietanti trascritti come in un referto che diagnostichi la malattia e il dolore ma non solo per dissolverne con il superamento quel male, ma per accettare il valore di quella emozione che resta testimoniata nel nudo (perché privo del suo indossatore) vestito, vestigia nelle rarefazioni mentali; oppure la potenza di un futuro ipotizzabile, come quello esibito di un abito da sposa. La pura datità delle spoglie con cui Milena titola molte delle sue opere, è non solo l’indicazione svuotata dell’essere, ma anche la sua verifica identitaria, ciò che resta, ma non viene obliato od obliterato da un diktat consumistico del decorso: anzi è la custodia e la ricreazione di quel valore sensibile nel suo evidenziarsi iconico, ma fisico, evoluzionistico. Per esempio in Spoglie 23 il bianco cupo di un abito da festa è circonfuso dal rosso, dalla sabbia densa di un ovattamento emozionale, di un doloroso ricorso all'indietro in cui con eccellente mimesi le macchie, le imperfezioni pellicolari diafane, luminescenti generano i frastagli naturali, le ramificazioni, le efflorescenze di un lieve controcanto, una quinta infinitesimale.
Da un testo di prosa creativa che la stessa artista ha scritto come dichiarazione di poetica si traggono alcuni spunti interessanti nella visione duplice di una ebbrezza rifusa tra l’alto ambizioso di una ricerca filosofica, e il reliquiario personalissimo delle fissazioni:“sto analizzando pittoricaMente il ‘luogo’ inVisibile del corpo, “l’Anima”, non intesa in senso cattolico ma il cuore del cuore, la nostra intimità assoluta nell’unità che è il tutto, nel tempo infinito che è l’istante, nella parte inviolabile di noi, nell’alchimia che riconduce la cenere a umanità e l’umanità alla cenere. Paure e fobie contemporanee verso le malattie, i virus e le infezioni che inacidiscono il sangue.” In Sentitamente ringrazia, la configurazione di una bicicletta si unisce polimorficamente alla suola di una scarpa che traspare sfocata, buste da lettera, forse mai spedite, e alla stoffa leggera, setosa di un indumento fluttuante, che è fluttuazione della pittura come recto della permanenza per cui è evidente il risultato di rappresentazione che contiene lo spirito di quegli enti non come avverrebbe in ambito religioso, piuttosto come la impressione fotografica di un'energia misteriosa destinata all'archivio di qualche indagatore dell'occulto, una registrazione sismica dell'anima. Le vesti sono l'emanazione, quasi l'incavo, il contenitore che accoglie le possibilità inesplose, una potenza femminile dell'arte di soffermarsi sul dettaglio imprescindibile, ma soprattutto la capacità di essere ventre, liberazione verso l'essenza e la trasparenza, come il rovescio dell'arte maschile, petrolifera, sulfurea delle "fotoradiografie" di Giovanni Manfredini.

L’opera è la prefigurativa narrazione epica di una trasformazione umana espletata dalla incertezza non solo dell’antico dubbio sul valore dell’esistenza e della condizione di precarietà generale, ma di una precarietà intrisa di paura nell’attimo, di una dimensione tecnologica, medica e biologica concentrata nello spasmo quotidiano di cui rimane la cenere gravitazionale, la diapositiva filtrante. Ceneri è infatti l’altro tema antropologico che nomina le lastre apodittiche fantasmatiche, vettore di un’inquietudine che si fonda sul senso tragico contemporaneo -che “niccianamente” è ordine e caos- di eventi come Ground Zero (la polvere che si alza dopo il crollo e genera a sua volta una struttura metamorfica) o le guerre del petrolio o anche in base a teorie fisiche contemporanee che rivelano l’oscurità della materia conoscibile e dalla cui combustione si esalano le polveri mefitiche che siano cemento, metallo, carne, lì dove si incontrano con le polveri del privato, quali cipria, creme snellenti, borotalco, nell’alchemico ossimoro pulviscolare che si deposita, si aggruma e si solidifica, trema e si crepa concrescitivo dell’unicum di immagini stratigrafiche e archeologiche dell’esistenza, a formare un cosmo dell’oltranza, o del rituale. Le opere monocrome sottendono alla ritualità della creazione in un approccio tribale durante il quale l’artista sul supporto posto orizzontalmente in terra lascia cadere tracce di pigmenti puri derivati dalla cenere di vite, di amianto, polvere di cacao e mescolati ad una colla acrilica che mantiene la superficie in uno stato di umidità, (una tecnica quasi “a fresco”). Si avverte fortemente l'amore per la pittura del trecento italiano, ma anche per quella cinquecentesca in cui la preparazione minerale, magica del colore, anche in Leonardo, è parte creativa in sé e non solo sapienza artigianale, piuttosto sacralità che permane. Il colore è un meccanismo semantico che esprime in sé una forza descrittiva, analitica. Senza tornare ai multiforms di Rhotko tuttavia la differenziazione cromatica per la Nicosia ha un destino funzionale:" I colori vanno dalle varianti di grigio, più o meno rosato o azzurrato o ambrato oppure vi è la sintesi rigorosa e metafisica del bianco e nero. Il bianco è la luce assoluta quale assenza di colore, simbolo dello sgomento che è la radice del mondo, la morte severa, secca, fredda, caustica, bruciante come il gelo. All’opposto il nero è la tenebra e la tendenza al non essere, fornito da ciò che il fuoco ha usato e abbandonato,(la fuliggine e il carbone)." Qui talora si gioca con la doppia possibilità del controllo e di una casualità però sempre accuratamente vagliata: eco dell’action painting e della danza di Pollock attorno all’opera che viene rimodulata sotto il segno di un delicato esercizio di salvazione tenace dell’interiore formale, connotato. Su un particolare, sulla liquidità degli elementi che smottano, scivolano, il soffio aereo dalle labbra di Milena interviene per equilibrare la gestazione, per autenticarne l’armonia. La pratica manuale si smaterializza nell’emanazione vitale e polverizzata di una pratica coitale. La pittura si fa evanescenza, forma fluida e volatile che aleggia oltre la sua misura e tenta di afferrare nei patterns la catalogazione dell'assenza, su cui cade, secondo i versi di Andrea Temporelli, "il cenere muto della storia." Ma la registrazione o la rivelazione non seguono una scansione regolamentata del passaggio, ogni dimensione temporale è annullata, perché nel tempo del sogno, della rammemorazione o del congelamento istantaneo può trionfare solo il senso di contemplazione e di sospensione che rimanda al tempo fermo dell'arte che è il contrario di quello corrosivo della morte e della clessidra vitale. L'impossibilità della morte per l'arte qui è minimizzazione di ciò che per esempio vale la conservazione in formaldeide dei corpi sezionati di Damien Hirst, il rifiuto di quella morte avviene per (provocatorio) il sezionamento che agli spettatori fissi sullo stato di conservazione biologico li porta a convenire su un senso beffardo di immortalità. La conservazione gelosa a cui si ispira Milena è piuttosto quella delle scatole, di una cosmogonia dell’interiore, tramite chiusure disvelate, nude abitazioni del senso umano, privato, minimale, prezioso. Nell'opera Scatola 24 una farfalla ricamata e i petali di una rosa, unici elementi colorati nel monocromo immaginario afferente a una semiotica femminile, nel suo rivelarsi compito, essenziale. Dalle figurazioni trasparenti, seduttive del primo periodo dove i perizoma, i reggiseno erano iridati da colori caldi, avvolgenti seguivano le tensioni biografiche dell'artista, ora si stemperano in freddi, algidi bianco e nero, i colori assoluti, all'interno dei quali tutta la gamma di percezioni consta, che non sono l'abbandono del sentimento che li ha originati, quanto un allontanamento delle passioni inteso come in Seneca, considerando la maturità e la evasione leggera, senza dimenticare il peso delle storie a cui la pittura dona una fenomenologia. Giochiamo! 2, è l'opera che più denota questa funambolica danza tra le inquietudini e gli orrori del tempo presente, la sega, in negativo in basso si raffronta al galleggiamento che rallenta la giravolta dell'abito, poiché il gioco è sapersi ricordare del nemico, o delle ombre al neon, forse feti, ecografie di una impossibile gravidanza a cui rimangono saldati nella volontà di attuazione. Quasi un chiamarli all'atto in senso heideggeriano, per far rivivere, salvare o ricreare la realtà a cui mai l'istinto artistico soggiace.

Di Bella Giuseppe

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