venerdì 1 maggio 2009

Tommaso Ottieri racconta la sua pittura


Pubblichiamo oggi una presentazione preliminare, che poi è un botta e risposta via e-mail con l'artista stesso, dell'opera di Tommaso Ottieri, a cui dedicheremo un ampio spazio sulla nostra rubrica "Passeur" sul numero di Giugno del nostro Trimestrale. Giuseppe di Bella ha posto alcune domande al pittore napoletano per tracciare meglio i contorni critici e gli spunti creativi della sua opera:
Giuseppe di Bella - In che modo si pone il suo approccio al medium pittura rispetto alla complessità dello spazio trasformato dell'era del tecnologico?
Tommaso Ottieri - I miei lavori nascono da sopralluoghi sui posti che intendo ritrarre, dove faccio rapidissimi schizzi, appunto note sui colori e soprattutto faccio un centinaio di fotografie alla scena intera ed ai singoli particolari. Poi, in studio elaboro al computer le immagini, spesso ibridando scene diverse tra di loro. Mescolo pezzi diversi, a volte anche di città diverse: quello che mi interessa è il risultato finale, che quasi sempre è preciso sin dall'inizio. Quando, alla fine comincio a dipingere il tutto, lo faccio con una tecnica tradizionale, di pittura ad olio o ad encausto.
In questo modo mi pare di utilizzare diverse tecniche, alcune modernissime come la computer grafica, altre molto antiche come l'utilizzo di olii e pigmenti per lo stesso unico fine: comunicare l'idea della grandezza dell'uomo.
GdB - L'importanza del segno, del "graffio" che sfoca ed esalta le sue rappresentazioni ha una funzione meramente estetica o un significato propriamente di valore, cioè anche semantico e di concetto?
TO - Alla fine della sessione di lavoro in studio ho davanti una scena dipinta in modo molto realistico. A quel punto cancello il più possibile, mescolo il colore con spugne, pennelli o anche con le mani. Mi impossesso del colore dimenticando l'immagine: in questo modo libero la materia pittorica quanto più posso dalla "schiavitù" dell'immagine reale, ed ottengo un impasto che sta a metà strada tra un lavoro di vedutismo, ed uno di segno materico astratto. Ogni cosa, la metto al servizio della sensazione che mi piacerebbe mettere davanti a chi guarderà il lavoro finito.
GdB - Cosa vuol dire per lei lo spazio urbano in termini di nuovo, come nuova possibilità di scoperta e cambiamento delle prospettive consolidate?
TO - Gli spazi dipinti nelle mie scene non sono mai veramente conformi alla realtà: le stesse prospettive sono somme di prospettive diverse. Uso parti di edifici per ottenere edifici nuovi, ed intere parti di città per ottenere una scena originale. Spesso, per esempio, i cieli che dipingo sono ammassi cumuliformi che ritraggo da esplosioni, o eruzioni vulcaniche, le acque sono studi sul vapore o sulle schiume, e gli stessi edifici sono ammassi eterogenei di pezzi sparsi. E' questo il motivo per cui sovente cucio insieme molti lembi di tela, per ottenere la superficie da dipingere. Alla fine, ricorderà una specie di Frankenstein spettacolare, e sarà memoria del procedimento costruttivo dell'immagine.
GdB - In che modo la progettualità dell'architetto entra all'interno della pittura anche per quanto concerne parametri scientifici, oggettivi?
TO - Ho cominciato anni fa a dipingere gli edifici che restauravo come architetto. Mi sembrava un corto circuito perfetto: la città si costruiva davanti a me, ne vedevo la fatica di migliaia di uomini in migliaia di anni, e ci mettevo le mani da architetto e da appassionato. Poi, la recuperavo sulla tela e la riprogettavo da capo. Qualche volta i miei lavori sono stati collocati proprio all'interno degli edifici che avevo ristrutturato. Quello mi sembrava un cerchio perfetto.
GdB - Che significa per lei la relazione fra naturale e umano, l'equilibrio precario ma prezioso che un luogo come Venezia rappresenta?
TO - La città è un atto violento e creativo dell'uomo nei confronti della natura:ha da sempre protetto, custodito e amplificato le aspirazioni migliori degli uomini. L'equilibrio non è quasi mai stato un obiettivo chiaro per quelli che l'hanno edificata, eppure, nel tempo, e nei casi migliori, come quello di Venezia, esso è stato raggiunto, perché quando la creazione dell'uomo è ben fatta, ed i suoi talenti sono spesi senza paura di fatica e sacrifico, si ottiene esattamente quello che ottiene la natura: armonia di ogni parte con ogni parte.
GdB - Le tracce storiche che influenzano il suo percorso sono pittoriche ma provengono anche da altre influenze: cioè a parte il vedutismo, a parte il paesaggio, quale arte è entrata nella sua arte?
TO - Io conosco come si costruisce la città: so che dentro le mura ci sono gli avanzi dei pasti dei muratori, che dentro la calce ci finisce ogni genere di umore umano ed animale, e comprendo quanto involontariamente uomini umili, grandi pensatori, incantevoli musicisti collaborino per lasciare una traccia comune. Penso sempre che non si potrà, tra un po' di anni, vedere le mie opere senza pensare anche ai film che sto vedendo, alle musiche che sto ascoltando, ai combattimenti ai quali sto prendendo parte.
GdB - Che relazione fra pittura e piacere?
TO - Ho sempre dipinto... intendo, lo faccio da sempre. Per vivere ho fatto lavori diversi, molti belli, qualcuno un po' meno, ma nel medesimo tempo dipingevo senza sosta. Sono fortunato, adesso a poterlo fare quasi esclusivamente: lo ritengo una cosa normale, come mangiare, camminare, parlare. Non saprei dire se c'è piacere, semplicemente lo faccio, come una cosa che appartiene alla mia stessa natura.
GdB - Che relazione fra pittura e funzionalità?
TO - L'intenzione di quello che faccio è la cosa alla quale sono stato interessato più di altro, da sempre, sin da piccolo. Pregavo i maestri, dai quali mi recavo a bottega, prima ancora di darmi le tecniche di chiarirmi un obiettivo, di aiutarmi a trovare qualcosa da dire. Uno non vuole convincere gli altri di quanto sia vero quello che ha pensato, ma vuole dare strumenti per poter provare cose che non si credeva di poter provare, per poter credere di poter fare cose impossibili. Come costruire cattedrali gigantesche, città ciclopiche, torri altissime, con mani lunghe poco più di venti centimetri.
GdB - Come intende il dialogo con la tradizione? (Poichè è evidente che c'è n'è uno.)
TO - Mio nonno preparava fuochi d'artificio per le feste religiose. Ricopriva campanili e facciate di chiese di polveri colorate e polvere da sparo, per incendiarli nelle feste popolari e far vedere alle persone , quanto diverso il loro mondo potesse diventare, quanto più potente, se qualcuno avesse messo mano ad esso, per creare l'artificio che spalanca le bocche, e rincuora il coraggio della gente. Credo di star provando a fare la medesima cosa.
GdB - Il suo sguardo è profondamente umano, molti pittori oggi intendono l'immagine come possibilità di ambiguità, di illusorietà, per lei vale questo assunto o tende piuttosto a una nudità?
TO - Nella mia città, Napoli, occorre tenere la guardia alta: mi piacerebbe ragionare sulle illusioni, sulla magia e sulle ambiguità che l'arte può e deve dare: mi piacerebbe parlare dell'intimità, della sessualità, dissacrare, diffamare, persuadere e dissuadere. Ma qui, in questa guerra, abbiamo altre urgenze. Costruiamo quello che possiamo per tenerci la speranza, e se alla fine, qualche quadro in più può migliorare lo spazio dell'uomo, di questi uomini, è già tanto. Magari un giorno, più tranquilli, penseremo anche noi a quelle altre faccende.
GdB - Nel ciclo Sirene L'idea di ambiguo, di destabilizzante, di fecondamente ingannevole, ma profondo, sembrava avere la meglio, forse adesso lo sguardo tende ad essere più propriamente poetico, essenziale?
TO - Sirene è stato un ciclo di lavori sulla forza di volontà degli uomini che resistono, in periodi di crisi, di guerra, di difficoltà, ad ogni genere di sacrifico e di privazioni: enormi macchine da guerra sovrastavano i pezzi delle città storiche, dipinte come sono ai giorni nostri.
Volevo solo scrivere l'enorme forza, la caparbia volontà di sopravvivere che avevamo avuto appena due, tre generazioni fa.
Ricordare di quando morivamo e ci sentivamo forti per quelli che riuscivano a rimanere. Adesso, credo di star dipingendo quello che siamo oggi, e come vorremmo diventare , al più presto possibile.Queste domande sono molto belle, e 11 è il mio numero preferito.

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