venerdì 1 maggio 2009

Tra patinatura e disfacimento della carne.


Su coordinate estetiche sempre più divergenti ed inclusive rispetto all’intricato svolgersi dell’espressione artistica contemporanea, la sola imperfezione programmatica che offra un corto circuito comunicativo vero, sembra condensarsi tutto nel fiorire di una difforme concezione dello sguardo soggettivo che si cala in un oggettività, ormai non più neanche tanto clandestina né estranea, dal percorso tempisticamente incorruttibile dell’occidente. Di certo in Oriente, fra i fortissimi rossori fuxia delle donnine di Feng Zhengjie e i corpi teatralmente denudati di Xu Wentao, in linea con tutta quella scuola riconosciuta dal 2003 come Pittura fotografica cinese, la dimensione corporale e corporea del neo-figurativo viene compressa in una dialettica che se da una parte denuncia in maniera solo speculare e reiterante superficialità e turgore patinato, costituisce di certo una possibilità semiotica sfruttata al pieno delle sue risorse storico-artistiche peculiari.

L’omologazione del linguaggio dell’arte nella sintesi multimediale sembrerebbe riprodurre analogicamente quello della globalizzazione nei confronti dei patrimoni culturali, in quanto fusione mirante alla spettacolarizzazione ad ogni costo, di ogni elemento seduttore, anche e soprattutto il corpo nudo, emblema della espressione classica dell’arte. Ed anche in occidente il canone del nudo figurale sembrava riacquistare un primato con un’alta qualità di lignaggio solo in maniera proporzionalmente inversa alla produzione in tal senso praticata. Lucian Freud ed i suoi corpi disfatti, realisticamente sfigurati sui letti, in pose che risarciscono dell’armonia greca nei suoi tendaggi e che la superano nella capacità di non sentire più il bisogno di un’espiazione, ma ricomponendone geometrie e attuandone valori di bellezza straordinariamente lirici e capovolti. Allora il senso è sempre quello primigenio della lingua, di un linguaggio da restaurare in virtù di un rinnovato contenuto estetico, nella sempre feconda dicotomia fra Est e Ovest della creazione, in continua contaminazione e negazione delle rispettive formule. È possibile per esempio riscontrare singolari somiglianze tra le pose e le movenze di Xu Wentao e l’iperrealismo domestico di Giovanni Iudice. Donne, veneri moderne coi piercing, i bracciali alle caviglie, statue, silhouette, perse e adombrate nell’alienazione del loro desiderio, in un caso, e della loro noia quotidiana nell’altro: figure di cera adagiate contro termosifoni o abbandonate in fredde vasche d’acqua osservate dall’alto come a confermarne il residuo cinematografico o l’onnipotenza divina sempre sfiorata dall’ego artistico. Una superficiale divergenza dunque tra l’oriente sempre ammantato nel mistero di un suo cantore teso all’icastica irriverenza e un occidente incarnato dal desiderio effimero dell’immortalità, di un hic et nunc sempre più logoro e ingannevole.

E sono pittori lontani per estrazione eppure accomunati da una stessa percezione voluttuosa, edonistica, dionisiaca della figura umana. Parliamo di Marco Grassi, Elisa Rossi, parliamo di Costantini e di molti altri ancora, quasi correlativi continuatori insieme ai più celebri colleghi americani di quella linea di erotismo raffinato riposto in Renoir, Monet, Klimt. Sembrerebbe il segnale di una scossa strutturale estesa che potrebbe comportare la fusione davvero globale nel nome di un modello in cui convivono le differenze e vengono esaltate le somiglianze, utilizzando la figura e il nudo non più come soggetto dell’arte, ma come luogo del classico perduto nella tensione fra filologia e negazione. Tuttavia è sulle somiglianze che bisogna basare questa ricerca, constatando quanto ancora una volta nella vertiginosa epoca del virtuale, l’Icona coincida sempre di più con l’essere, e come la carne subendo un fenomeno di plastificazione visiva, materica, semantica confonda il confine tra realtà e finzione dove è la prima che imita la seconda come rilevato in un libro estremamente acuto che è L’età della finzione. Arte e società tra realtà ed estasi di Massimo Melotti pubblicato per Sossella Editore nel 2006.
È interessante scorgere come tutti questi artisti particolarmente attenti alla figura umana adottino la tecnica per confondere, anziché per concretare lo scarto fra grana mediatica e sintesi materiale fatta di umori, sangue, peli impercettibili, pori, vene appena azzurrate sotto la cute, nell’acme erotico e non più sublimato dalla lente del racconto, sfruttando la caduta del pudore pagana nel ri-confezionamento industriale e seriale che elide ogni passione e contatto.

Allora è forse questa la chiave di lettura, siamo di fronte alla ricomposizione formale della perfezione classica nell’estasi sensoriale dove la carne è, nel suo rosario sgranato di icone labirintiche da Internet e televisione, al tempo stesso la rassicurante bellezza senza rughe e l’orrore di un corpo in disfacimento, riflesso esistenziale privato di ogni rapporto col metafisico e col suo alterego naturale, il sogno. Forse corpi senza anima, se proiettati sul fondo dello schermo dove tutto esiste perché è visuale. Di certo non siamo più di fronte alla terribile e magnifica deformità straziata di Francis Bacon, dove la deformità è ancora psichica prima di ogni altra cosa. Ma proprio a partire dalle affinità con uno come Bacon si potrebbe ritrovare la scossa necessaria ad una rivalsa differenziale che oltre alle consuete sovrimpressioni sul classico che deturpano o perfezionano inchinandosi al minimalismo, verta ad un’indagine conoscitiva che espressionisticamente ci riporti al mito della bellezza o del suo contrario ad un livello veramente sovrumano e quindi sovrastrutturale, come nella pittura straordinariamente aperta e corrotta, dura di Marlene Dumas. Nell’arte classica il nudo è strumento estetico che, “castrato” della sua fisicità, esprime il mito del corpo, proteggendo il mistero della bellezza (..) nell’Ottocento, Ingres immortala odalische, dedite ai piaceri del bagno turco, modellandole sull’esempio dei nudi classici. Così ricorda in un suo saggio Jaqueline Ceresoli e ritroviamo le cause di una frattura tra il nudo nell’arte come realismo naturalistico o come, invece, realismo voyeuristico. Oggi i nudi sono indici, oltre che della sessualità, dell’integrazione tra uomo e macchina. Il corpo si è trasformato da referente estetico, a icona carnale del piacevole dolore di vivere nella cultura contemporanea. Se l’Olimpia di Monet è il primo nudo moderno dove già il perbenismo borghese del 1863 creava una alchimia dello scandalo col piacere scaturito da quello scandalo, noi siamo al punto in cui il piacere nasce dalla sovrabbondanza visiva priva di pudore che infiamma i sensi fino a far scomparire la stessa immagine del nudo nella sua cieca rifusione lasciando un buco nero sullo schermo della nostra indifferenza abituata. Allora è giusto riproporre una semantica erotica che riconduca il nudo alla sua propria dimensione pittorica, con quelle sfumature di contenuto capaci di dialogare ancora ad un livello alto con il nostro vero sentire.

Tuttavia c’è sempre nel corso della storia chi come Gaugain costituisce già in sé una eccezione capace di sostenere qualsiasi contraddizione e di coniugare insieme substrato emotivo, contenuto e unicum fra occidente e oriente, missandoli nella rifuggente nudità priva di pudore, perché al di sopra di qualsiasi perversione o moralismo. Così, forse si chiude il cerchio e tutto ritorna all’esemplarità dell’atto creativo dove la bellezza riconquista un suo potere curativo e rilassante senza più le maschere né della classicità né del modernismo infausto. Così giustifichiamo nelle pagine a fianco la presenza di un artista polacco, operante fra Parigi e New York, un artista che nella pura declinazione della bellezza femminile riscopre la dimensione del sogno e di un nudo reale, ma evanescente, sensuale, non seduttore, capace di affabulare trascinandosi dietro il mondo, ma non le sue convenzioni.
È Yarek Godfrey, doratore di sembianze strappate alla riconoscibilità del video e riportate alla pittura calda, radiosa e monocromatica della visione. Non siamo tuttavia di fronte alla vacuità della visionary art, ma ad un pittore più concreto che mai, dalla tecnica perfetta, impeccabile, come di norma per ogni naturalista. Yarek congiunge brani floreali, evanescenti alla figura umana, senza la ritrosia dell’ovvio, ed è capace di coniugare con velature e dissolvenze, sinuosità di tigre e armonia, sesso femminile e acqua simbolo di fecondità ancestrale, fino a farci partecipi in uno del fuoco e del legno. I suoi scorci sono collage senza margine, di brandelli di tempo e di ricordo illuminati dal calore dell’esistenza e semplificati pure nella loro complessità mnemonica: piani diversi sotto lo stesso sfondo ocra, nella vanità compiaciuta che non dileggia se tenta di evocare ingenuamente nei glutei, come nella volta di quel cerchio dimensionale, la possibilità almeno nell’arte di Un mondo perfetto, dove anche il Santuario contiene la forma più provocante della femminilità e ci crea forse un po’ di disagio, finalmente, perché totalmente straniante rispetto alla dolcezza con cui adagia i suoi corpi, semplicemente belli, desiderabili, forse irresistibili, ma senza polemica, senza specularità gridata. I suoi dipinti sono graffiati solo dallo scorrere del tempo, dalla ineluttabilità del corso vitale che di certo sfiorirà quei corpi, avvizzirà quei seni, ma senza rimpianto se avremo colto il dono, ancora quell’invito al Carpe Diem, qui più accorato e più sentito che mai.
Scorrono negli occhi le molteplici figure di Venere, di Maya, di Olimpia, con quel trionfo della nudità che è il modo più diretto per ritrovare un legame con la nostra identità: che il nudo sia ancora il disvelamento estatico del nostro essere nel mondo e concludendo con le acute parole di Jaqueline Ceresoli, “un auspicio per allontanare il rischio di smaterializzarci nell'etere, di essere robotizzati o inghiottiti dallo spazio virtuale, dove la carne è un simulacro”.

Giuseppe Di Bella










Bibliografia: L’età della finzione. Arte e società tra realtà ed estasi, Massimo Melotti - Sossella Editore 2006.

La nuova scena urbana. Cittàstrattismo e urban¬art, Jaqueline Ceresoli- Franco Angeli editore 2005

Cina Pittura Contemporanea, Lorenzo Sassoli de Bianchi- Damiani editore

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