venerdì 1 maggio 2009

Mauro Di Silvestre Le tracce eteree del passaggio.


La pittura di Mauro Di Silvestre assume l'iconografia del miraggio. Un miraggio che ha la doppia funzione cerimoniale, di ripercorrere e di espiare la proprie tracce esistenziali. Le tracce che Mauro Di Silvestre fa trasparire attraverso raffinate velature sul tessuto dell'opera, rappresentano infatti una catarsi personale, che come rileva Achille Bonito Oliva hanno la cadenza proustiana del ricordo e scontano la loro marmorea precarietà fino a esaudire un desiderio di fabulazione e di distanza. C'è di fondo una tensione conoscitiva in questa trasposizione degli stralci fotografici dell'infanzia volta ad affermare con pudore o ansia il sostrato psicologico volontario, in modo da definire la reminiscenza di quel lì e allora come pratica mnemonica che tradisce evanescenza in contrapposizione all'immanenza dei mobili, delle auto, dei palazzi, delle tappezzerie, degli alimenti, degli accessori quotidiani investiti dall'incorruttibilità che conferisce loro la potenza cromatica e realistica sul confine tra figurazione e deformazione. C'è una influenza quasi spirituale nella ritrattistica dell'artista, atta a spogliare il puro dato figurativo e a rimarcarlo su una più intensa sonorità esistenziale, come una ricerca poetica pencolante fra l'esigenza gnoseologica dell'individuo e un'astrazione salvifica rispetto ad un quotidiano che assume l'iridescenza emotiva delle forme, nel ri-velare, nel ri-portare alla luce della maturità riflessiva i capitoli di una vicenda in cui si insabbiano le tracce che egli segue fino alla radice del proprio esserci umano, fino all'essenza dell'artificio primigenio.Una vitalità pantagruelica incarna i colori dei suoi dettagli infinitesimali, delle masse monocrome immerse in uno scenario dualistico fra soggetto e oggetto. I piani diversi, quello mnemonico e quello esplorato della contingenza si contendono l'attenzione dello spettatore lasciandolo ebbro sulla soglia della percezione logica, elusa nell'intreccio di parti che assumono valenze difformi sulla mappa sensoriale dell'opera. L'immagine è di fatto l'incarnazione dell'assenza, l'altra parola che Di Silvestre indaga e che fa rimare all'unisono con essenza, riducendola in filigrana impalpabile, dissolvendola in endoscopia indecifrabile del caso. E volutamente si tende a volgere soltanto in positivo le sfumature creative o ricreative del miraggio, dato che rasenta oppostamente al suo dettato, l'hic et nunc terribile della scomparsa imminente o la concretizzazione quasi cartacea del fantasma che cela sui passi della trama collettiva o individualistica: poco importa.

Di Silvestre cammina ad occhi chiusi verso la propria casa natale, ad occhi chiusi seguendo le tracce olfattive che lo riportano all'essenza della sua anima. E vi trova tutti gli oggetti lasciati, una giornata al mare, gli angoli della propria contemplazione estatica e ludica. Tutte le cose sono simboli su cui proietta una brama di possesso sibaritica, un'energia polimorfica pronta a esplodere sulla parete di un appartamento icastico, o su un cortile condominiale e pronta a prendere la forma di un magnifico arazzo o damasco, che la mente percepisce tale, ma che in realtà è solo la sovrapposizione della sontuosa stoffa di una poltrona, in Lontano da casa o come ne Il signore della domenica (2006) dove la fragilità della silhouette infantile sosta al centro di adulte traiettorie indifferenti e frenetiche. L'iconografia di Di Silvestre coglie il colpo d'occhio, il riflesso impigliato alla retina, refuso visivo che induce alla riflessività se instilla una dinamica rapsodica nel riconfigurare le pause, i deragliamenti sensibili, la riedizione di frangenti che sembravano perduti per sempre. Sulla superficie fotografica della memoria visiva imprime simultaneamente brandelli di passato e presente, impressiona su uno stesso fotogramma l'alone residuo che cattura le istanze empatiche dell'individuo, liberandolo verso un tempo posteriore dello scenario sincronico. Profezia di un'arte che si denota eccentrica. L'arte è compendio di visioni umbratili, ma riacquista una dedizione rappresentativa grazie alla manualità onnivora dell'artista che oppone il denso vitalismo delle sue opere ad una attuale sempre più anoressica estetica compositiva. Il gesto di Di Silvestre è ricercato, morbido, controllato, si adagia su un ricamo gotico delle forme e dei cromatismi, separa la soglia concettuale da un senso rutilante, bucolico della pittura multidimensionale.

L'iconografia del miraggio nel labile sagrato pittorico, mira ad una tensione volutamente indefinita di realtà che rimanda a Kierkegaard, asserendo tacitamente che l'occasione, il miracolo, può fiorire dalla banalità o che talvolta è la banalità a contenere in sè il miracolo. Le opere dell'artista vietnamita Din Q. Le, hanno con queste, solo un'affinità linguistica: ricamano insieme in un percorso virtuale di indagine, la quotidianità dell'odierno Vietnam e l'epopea drammatica della guerra. Ma mentre i fantasmi dell'artista orientale sono volti al canto di un mondo universale, ammantati di mistero ieratico, le ombre fugaci di Di Silvestre mirano alla reiterazione del desiderabile, alla catalogazione privata di un universo goliardico e carnevalesco da tutelare. È una riduzione iconica del dramma esistenziale dell'umanità in tracciato aeriforme del vissuto personale. Le icone eteree hanno la leggerezza specifica di un veloce passaggio alla cultura pop e ritorno. La trasposizione delle pigmentazioni soggettistiche, materiali o umane, si dirama come un collage o un patchwork che descrive le infinite possibilità del linguaggio svincolato da epistemi meramente descrittivi, virando ad uno stile contaminato, non più rispondente a un solo equilibrio d'immagine, ma scomponendo l'immagine in astratto, enumerando i miraggi autoindotti nel deserto habitat del giorno. Di Silvestre auspica un ascolto lirico, semmai, proteso alla lentezza del decorso esistenziale dove ad ogni passo ci si volta per apprezzare il lascito che ci trascina verso un futuro recente, dimidiato.

Secondo i dettami platonici l'arte è ricerca del piacere, secondo Aristotele essa è invece fenomeno di conoscenza, e attuando una sintesi narrativa repentina di queste tesi il pittore elabora un cosmo pittorico di fenomeni elementari, dove la statica congruità del contesto è mossa dal surplus dell'apparizione. Ma celebrando le immagini Di Silvestre se ne congeda per consegnarle a un pubblico sguardo. E il suo sguardo si trattiene dall'interno dell'opera per interrogarci sul responso non univoco che suscita. Come un messaggio spirituale che celebra l'icona di per sé esistente, l'uomo celebrato nelle sue espressioni anche triviali, attraverso una glissante proiezione olografica. L'apparizione è mimetica e in parte sottende allo scopo tecnico della realizzazione, dato che le opere hanno meticolosità quasi cinquecentesca. Ma infine la figura privata di corporeità, o dotata di un corpo inconsistente viene messa a nudo e salvata solo in quanto puro distillato di psiche ed Essere. Viene rimossa la carne, la zavorra per rappresentare intatto il significato, l'essenza, il puro distillato della pittura contemporanea.
Così nel suo frequenzimetro accurato, Di Silvestre trascrive tutti i sussulti, gli sbalzi, le pulsioni, i battiti, le tracce di quel vissuto da cui si congeda mentre lo dimentica in eterno, frutto di una memoria che non è più solo disegno, miraggio, rifrazione iconografica, ma emozione vitale scaturita di getto, rivisitando il silenzio, la noia, camminando nelle nostre dimore, quando al contatto della mano sfiorando il nostro alter ego, cediamo memori ed immemori, al flusso eteroclito dell'arte con le sue illazioni.

Giuseppe Di Bella

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