venerdì 1 maggio 2009

La sospettabile apparenza, Bradley Castellanos



Da quando la pittura è divenuta eminentemente fotografica, grazie soprattutto all’influenza di un genio come Gerard Richter, è andata acquisendo una apertura concettuale sempre più ampia sulle proprie digressioni culturali e mediali, e il rapporto con il mondo e l’ambiente, inteso anche come spazio, virtualità da esplorare e riempire di significati epocali, inquietudini, visionarietà, libertà di segni e attese, assume ogni volta una nuova connotazione antropologica profonda e insieme nuda nel varare lo spazio della superficie pittorica, in modo ecumenico, e di potente impatto. Dopo il duplice impulso simbiotico dell’astrazione e della figurazione come nel caso del maestro tedesco, è avvenuta una violazione, in senso positivo, di contaminazione totale interna alla stessa pratica del dipingere. Come se tutto il cinema, la performance, la video arte, l’installazione che negli anni novanta, sembravano dovere sostituire o sopprimere il mezzo, fossero invece entrati insieme nella tela, dando vita a una nuova superpittura, stratificata, in grado di rivoluzionare la rappresentazione del reale e di sfruttare nell’ambiente del quadro le linee strumentali e teoriche per esprimere con maggiore frontalità, ma allo stesso tempo con più ambiguità, e dubbio cartesiano, il valore esteso dell’immagine che comunica. Poiché la pittura dopo aver superato la sua crisi periodica, sta attraversando certi meccanismi di autoanalisi, di un’illusorietà che fa i conti con la natura profonda delle cose, con un certo tipo di ricomposizione del reale, che si contrappone ad una produzione industriale delle immagini, e quindi soprattutto si raffronta con quella naturalità in senso lato che era stata delegittimata dal rigetto per il romantico. Addirittura come per lo scozzese Peter Doig, una formulazione peculiare della figurazione paesaggistica e naturale dal tocco realistico, ha reintegrato un romanticismo in grado di convogliare l’energia polifonica dell’immagine, all’inusuale e al poetico. Si restituiscono una “religiosità” o una scientificità che passano per un confronto duro e serrato col reale/naturale, con lo spazio trasformato del mondo iper-tecnologico e iper-industriale, vagliandone fastidi e idiosincrasie epocali.
Per questo parlare dell’opera di Bradley Castellanos significa subire gli effetti di problematiche che indagano le strategie di un’iconicità naturale e alterata, di ciò che è superficiale e profondo; un’elaborazione mentale dell’ambiente, intesa nelle varianti della purezza onirica o in quella del degrado e della corruzione di ogni materia sottoposta ad un passaggio evolutivo, allo stesso modo in cui si incentra prepotentemente nella manualità pittorica una gestalt che idolatra il colore acceso, per declinare maggiormente verso la trasposizione di un mondo reale e visivo segnato da eccessi di ogni tipo. Qualcosa di tossico, inquietante aleggia nelle opere a tecnica mista di questo artista messicano, residente a New York, dove il colore caldo o resina viene steso sulle fotografie, in una eloquenza allucinata che si sposta continuamente dal fantastico, al sociale, con un grande rispetto della visione dell’opera e per la natura del messaggio, occultato e rivelato a seconda della sintassi che si vuole produrre. Infatti una parte delle opere di Castellanos si sofferma sul paesaggio, specialmente quello boschivo dove la dimensione dark delle atmosfere, e delle allegorie sospese ingaggia l’ancestrale, l’inconscio, come certe favole, che oggi si canalizzano nel malefico di un cinema o di una letteratura che potrebbero includere tanto Kubrick quanto Stephen King. L’altro aspetto dell’opera è invece quello che racconta e definisce nella straniante narrazione delle provocatorie zone “in disarmo”, i luoghi abbandonati e privi di presenza umana, come il porto con acque schiumose e il cielo chimico fluorescente di Fallen Belle, oppure le fabbriche fuori uso piene di detriti, materiali di scarto, pezzi di lamiera, che rimandano a tutto un mondo della ruggine, della corruzione materica, del consumo biologico e molecolare delle cose, immerse nella sfera vitale dell’uomo quanto le sue componenti interiori. C’è sempre un coincidere del biologico e l’incorporeo in questa pittura, fino a quando il panteismo oscuro che la anima finisce per incontrarsi con il detrito, con la deiezione del creato o del consorzio industriale moderno e post-moderno. L’idillio è stato rimosso anche nella chiave ironica, lasciando spazio solo alla cieca ottusità di un incubo reale. A differenza di Doig qui l’eden è assente o rovesciato in un carnevale minerale dove il divino convoglia nel metallico, lo spirituale coincide con un processo di sedimentazione e inacidimento di sostanze chimiche, che si addensano nei cromatismi, e debordano dove tutto ciò che è stato prodotto e consumato diviene rottame esistenziale in una cosmogonia del residuale.
Ma bisogna fare attenzione a focalizzare quello che è il vero intento di questa operazione metaforica e metamorfica, poiché se inizialmente l’approccio tradisce una semiotica lineare e dell’indignazione, l’impulso forte che spinge ad osservare è una conoscenza profonda della natura percettiva rispetto all’habitat e all’ansia politica e antropologica che risiede in esso come dramma sociale, storico, inscindibile dal suo terrore mediatico e irreale. I media sono caratterizzati secondo la posizione del dromologo Paul Virilio da una sovraesposizione di informazioni e di immagini che inducono lo spettatore a uno smarrimento e a un abbagliamento che appiattisce i sensi e la capacità di avvicinarsi al reale e comprenderlo. Tale “illuminismo” mediatico finisce poi per coinvolgere anche certa produzione artistica che frulla il reale in un senso di sterilità e di superficialità. Allora la pittura costituisce un cosmo di immagini che permangono nella percezione e resistono a qualunque oblio e indifferenza, analizzando diverse pratiche e dinamiche di velocità e di cambiamento. Castellanos rispetto all’illusorietà del televisivo contrappone un’illusorietà della pittura che va in profondo alla realtà contemporanea di cui è l’esasperazione profetica: sono immagini afferenti ad un inconscio collettivo queste, legate ad un'iconografia del "troppo noto", che svelano un sistema di paradossi in cui l’equilibrio è funambolico fra l’immagine liberata nella sua nudità che grida di senso e il suo eccesso di significante. Così le tonalità acide, artefatte si integrano al sensoriale e raggiungono una resa che va ben oltre il pop e si spinge fino alla grafica digitale, da videogioco. In maniera sostanzialmente inversa, alla bellezza sfavillante e caleidoscopica di un impianto commerciale, seducente quanto fatiscente, in cui la transitorietà del visivo, anestetizza la cognizione, qui la vitalità cromatica risveglia dal torpore, l’apparenza è sospetta per metterci in guardia e sollevare il problema della rappresentazione rispetto ad ogni esperienza visiva referenziale filtrata e fungendo da catalizzatore di energie stimolanti e invisibili, superando così le questioni sul retinico, ma anche sull’audiovisivo. La pittura di Castellanos parla con impeto, parodiando i media, e sovraesponendosi oltre per spingerci verso l’essenza, non per allontanarcene, infatti crea uno scenario filmico a tratti sospetto come un eccesso di quiete, talora acceso come un allarme, ma la cui visione scioccante legata direttamente all’oggetto, ci lascia qualcosa, una traccia, nella materia più profonda, per far riemergere e permanere in noi, paradossalmente, la verità sulla condizione di corruzione e mistero a cui siamo necessariamente connessi. Infatti l’artista ripropone scenari metropolitani e post-apocalittici della sua New York, vedi King’s garden, ma riadattati ad un rilievo onirico e surreale che nella deformazione li rende universali, affermando il carattere duro di una città che adesso è anche spazio ostile, tenebroso insediamento animale dell’uomo che non ha ancora raggiunto l’equilibrio fra primitivo, necessario, e il progresso. Come per ispirazione del De rerum natura di Lucrezio si indaga la costruzione anatomica della natura e della natura iconografica e si evidenziano gli aspetti evolutivi insieme alle violenze di una insaziabilità esponenziale del nostro tempo, mentre si ausculta il valore esponenziale della pittura che fornisce i codici di decrittazione. La fluidità del passaggio tra l’oggettivo e il plasmarsi invece di un cosmo mnemonico di silenzio e teatro, è pregna di morte, lo spazio non è locus amoenus, ma deserto caustico e raggelante. La guerra (dell’America condotta arbitrariamente contro una parte del mondo) è anche ciò che incenerisce la vegetazione, la materia materna del pianeta, il suolo da coltivare di popoli già verso il declino, e proprio per quel senso di apertura di cui parlavamo all’inizio la pittura introietta questo profondo deliquio e orrore in un prospetto della performatività del dipingere che contiene ciò che rivela, un che di sordido e terribile, ma non solo la paura borghese e medievale della natura, ma quella più virulenta e meno misteriosa dell’esplosivo, in cui il confine tra l’inverosimile e l’inverosimilmente vero è labile come in quell’11 settembre sotto gli occhi video-diretti del mondo. Per questo la pittura di Castellanos è occultamento rivelatore di ciò che è ancestrale e odierno, poiché ci mostra un’irrealtà amaramente credibile sul punto di crollare, è la trasposizione di una transitorietà sublimata dall’eternità dell’opera, quindi alla fine, annullando i filtri nella loro annichilente ripetizione, tranne quello della pensosità rutilante della sua pittura, sullo scenario post-apocalittico in cui si gioca la resistenza di immagini che sono in relazione a valori umani e artistici da praticare eroicamente.

Giuseppe Di Bella

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